Tutto sul licenziamento dal lavoro

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Il licenziamento è l’atto con il quale il datore di lavoro recede unilateralmente dal contratto di lavoro con un suo dipendente.

È una tutela del datore fortemente procedimentalizzata nell’ordinamento italiano.

Il licenziamento nell’ordinamento italiano

Nella maggior parte dei casi, il licenziamento del lavoratore dipendente è possibile solo in presenza di specifiche motivazioni socialmente giustificate (art. 1 l. 15 luglio 1966, n. 604; art. 18 dello Statuto dei lavoratori), che possono riguardare la condotta del lavoratore (licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) ovvero la situazione in cui si trova l’azienda (licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

I riferimenti normativi sono:
– art. 2118 C.C.;
– L. 15/07/66 n. 604 (artt. 1,11);
– L. 20/05/70 n. 300 (artt. 28,35).

Il licenziamento per colpa del lavoratore

(licenziamento disciplinare)

La motivazione più frequente del licenziamento riguarda comportamenti colposi o dolosi del lavoratore, la cui gravità non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro per via della lesione del vincolo fiduciario. In relazione alla gravità della condotta, nel diritto italiano si distinge tradizionalmente tra licenziamenti per “giusta causa” e per “giustificato motivo”.

 

La giusta causa

“Giusta causa” è un concetto usato dal codice civile italiano (art. 2119 c.c.) per riferirsi ad un comportamento talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto neppure a titolo provvisorio (in sostanza: neppure per il tempo previsto per il preavviso di licenziamento). Fin dalle origini del contratto di lavoro il fondamento del potere di recesso per giusta causa viene ricondotto alla natura fiduciaria del rapporto.Ed è proprio tale presupposto che impedirebbe la prosecuzione anche provvisoria del rapporto in presenza di fatti di particolare gravità e tali da incidere irreversibilmente sulle aspettative della parte recedente.Una delle implicazioni di tale ricostruzione -secondo la dottrina prevalente, consiste nel consentire che rilevino quale giusta causa di recesso fatti estranei alle obbligazioni contrattuali ma comunque idonei a far venir meno la fiducia.In sostanza si potrebbe recedere per giusta causa anche in presenza di situazioni che di per se non integrano inadempimenti contrattuali ( teoria oggettiva che sembra confermata dal codice del ’42)Alla teoria oggettiva si contrappone teoria contrattuale che ritiene rilevanti al fine del licenziamento per giusta causa solo inadempimenti contrattuali. Giurisprudenza tiene conto assume parametri empirici : la sua portata oggettiva e soggettiva grado colpa e dolo , circostanze in cui è stata realizzata,presupposti relativamente agli effeti nella prospettiva di far venir meno la fiducia del datore, quindi la giurisprudenza è più vicina alla teoria oggettiva. In queste ipotesi, il datore può licenziare in tronco, senza dare alcun preavviso. A titolo esemplificativo, possono costituire giusta causa di licenziamento:

  • rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa/insubordinazione
  • rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l’insussistenza di una malattia
  • lavoro prestato a favore di terzi durante il periodo di malattia, se tale attività pregiudica la pronta guarigione e il ritorno al lavoro
  • sottrazione di beni aziendali nell’esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie)
  • condotta extralavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo fiduciario (es. rapina commessa da dipendente bancario)

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha specificato che la giusta causa si sostanzia in un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro (Cass. 24/7/03, n. 11516), al quale non può pertanto essere imposto l’utilizzo del lavoratore in un’altra posizione (Cass. 19/1/1989, n. 244).

 

Il giustificato motivo soggettivo

Il “giustificato motivo” (soggettivo) è un’ipotesi meno grave di inadempimento degli obblighi contrattuali, che giustifica il licenziamento ma con l’obbligo da parte del datore di lavoro di concedere il preavviso previsto (ovvero di pagarne il relativo ammontare). Possono costituire ipotesi di giustificato motivo soggettivo:

  • l’abbandono ingiustificato del posto di lavoro
  • minacce, percosse,
  • reiterate violazioni del codice disciplinare di gravità tale da condurre al licenziamento

 

Differenze tra le due nozioni

Al di là delle elencazioni esemplificative, a volte proposte anche dai contratti collettivi, la condotta del lavoratore dipendente deve essere valutata sia con riguardo alle modalità concrete del comportamento (tipo di rapporto, grado di affidamento fiduciario, gravità intrinseca della condotta, ecc.) sia all’elemento soggettivo (intensità del dolo, grado della colpa, motivazioni, circostanze di fatto, effetti dell’atto).

A valutare l’ascrivibilità di una condotta all’una o all’altra nozione è, qualora invocato, il giudice del lavoro, che in tale valutazione dispone di ampia discrezionalità.

Sul piano pratico, la differenza tra le due nozioni si basa sulla maggiore o minore gravità del comportamento e si risolve in questo: in caso di licenziamento per giustificato motivo, il datore è tenuto a dare un periodo di preavviso, stabilito dai contratti collettivi, oppure, se vuole estromettere subito il lavoratore dall’azienda, è tenuto a corrispondere al lavoratore una indennità di mancato preavviso, pari alla retribuzione complessiva che gli sarebbe spettata se avesse lavorato durante tale periodo. In caso di licenziamento per giusta causa, invece, il rapporto si interrompe immediatamente e il datore non deve corrispondere alcuna indennità di mancato preavviso.

 

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

A volte il licenziamento è reso necessario da una riorganizzazione del lavoro, da ragioni relative all’attività produttiva (innovazioni tecnologiche, modifica dei cicli produttivi, ecc.), ovvero da una crisi aziendale. Nelle ipotesi, cioè, in cui l’azienda, per vari motivi, non ricava più utilità dal lavoro svolto da quel dipendente, o, in generale, da una categoria di dipendenti. Per ragioni di natura economica o tecnica, il datore può quindi decidere di licenziare uno o più lavoratori. Se il licenziamento interessa cinque o più lavoratori nell’arco di 120 giorni, il datore è tenuto ad osservare la speciale disciplina prevista per i licenziamenti collettivi. Se tali soglie non sono raggiunte, si applica la generale disciplina sui licenziamenti qui esposta.

 

Casi di giustificato motivo oggettivo

Possono costituire casi di giustificato motivo oggettivo, sempre che non si rientri nella nozione di licenziamento collettivo:

  • la chiusura dell’attività produttiva
  • la soppressione del posto di lavoro
  • introduzione di nuovi macchinari che necessitano di minori interventi umani
  • affidamento di servizi ad imprese esterne

A queste si aggiungono due ipotesi che riguardano la persona del lavoratore ma sotto il profili del regolare funzionamento dell’organizzazione produttiva. la prima consiste nel superamento del “periodo di comporto”, cioè del periodo di malattia, stabilito dai contratti collettivi, durante il quale il lavoratore non può essere licenziato. La seconda è relativa alla sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni. Va precisato che le ragioni sopra esposte devono sussistere effettivamente e al momento in cui il licenziamento viene intimato, a pena dell’inefficacia dello stesso. Il giudice può controllare l’effettiva sussistenza delle ragioni tecniche ed organizzative, anche se non può sindacare sulla loro reale convenienza ed opportunità. Una presunzione di illegittimità del licenziamento si ha qualora il datore assuma, nei mesi successivi al licenziamento, nuovi lavoratori (anche a termine) per ricoprire le stesse mansioni in precedenza esercitate dai dipendenti licenziati .

In caso di contestazione in giudizio, è sempre il datore di lavoro a dover provare:

  1. l’effettiva sussistenza delle ragioni tecniche o organizzative
  2. l’impossibilità di adibire il lavoratore ad attività equivalente in azienda, ad esempio perché al momento del licenziamento non sussisteva in azienda alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale il lavoratore licenziato avrebbe potuto essere assegnato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle da lui in precedenza svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo
  3. il nesso tra le esigenze aziendali e il licenziamento intimato.

 

Scelta del dipendente e obbligo di repêchage

Il lavoratore da licenziare deve essere scelto secondo correttezza e buona fede. Se esistono, devono essere applicati i criteri concordati con le associazioni sindacali (es. minore anzianità di servizio, minore carico di famiglia, età, ecc.). In ogni caso è ovviamente vietato scegliere il lavoratore da licenziare sulla base di motivazioni discriminatorie (razziali, di sesso, di orientamento sessuale, ecc.).

 

Le ipotesi di libera recedibilità

Fanno eccezione alla regola della necessaria motivazione del licenziamento solo pochi rapporti di lavoro, in cui il recesso può essere intimato liberamente (in relazione al recesso da tali contratti, si parla di libera recedibilità o recesso “ad nutum”). Tra questi vanno ricordati:

  • lavoratori domestici
  • lavoratori in prova
  • lavoratori con più di 65 anni e diritto alla pensione di vecchiaia
  • dirigenti, salvi i limiti eventualmente previsti dal contratto collettivo
  • atleti professionisti

Una specifica disciplina vale infine per i lavoratori a domicilio.

 

Forma del licenziamento

Sotto il profilo della procedura da seguire, si deve distinguere il licenziamento disciplinare (per giusta causa o giustificato motivo soggettivo) da quello non disciplinare (giustificato motivo oggettivo).

 

Licenziamento non disciplinare

Deve essere intimato necessariamente per iscritto, pena l’inefficacia del provvedimento. Secondo costante giurisprudenza, infatti, la forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam, in base all’art. 2 della legge n. 604/66, anche dopo la riformulazione di questa norma operata con la legge n. 108/90.

Il licenziamento produce i suoi effetti quando giunge a conoscenza del lavoratore. In particolare l’art. 2 della legge n. 604/1966 esige che lo scritto, da utilizzare come strumento di comunicazione, non solo sia espressamente diretto all’interessato, ma sia anche a lui consegnato, con la conseguenza che è inidonea a realizzare la comunicazione scritta voluta dalla legge la conoscenza che il lavoratore abbia avuto altrimenti del licenziamento.

Ciò comporta che, maggior parte dei casi, la lettera di licenziamento assuma la forma di una raccomandata, consegnata direttamente all’interessato (raccomandata a mano) o a mezzo posta (raccomandata con ricevuta di ritorno), presso la sua residenza o il suo domicilio. Finché la comunicazione è meramente orale, il lavoratore resta dipendente in forza presso il datore di lavoro, ed è tenuto a presentarsi sul luogo di lavoro, potendo rappresentare le assenze non giustificate (senza certificati medici) un giustificato motivo di licenziamento.

Il licenziamento dispiega i suoi effetti quando la lettera con cui è intimato perviene all’indirizzo del lavoratore (articolo 1335 c.c.).

Lo scritto con cui è intimato il licenziamento potrebbe non contenere alcun riferimento ai motivi del provvedimento datoriale. In questo caso il lavoratore può richiedere – nel termine di 15 giorni – i motivi del licenziamento, richiesta cui il datore di lavoro deve rispondere entro i successivi sette giorni, pena l’inefficacia del provvedimento. Anche la comunicazione dei motivi deve, a pena di inefficacia, rivestire la forma scritta.

I motivi comunicati in questa fase dal datore di lavoro non sono modificabili successivamente.

 

Licenziamento disciplinare

In caso di licenziamento disciplinare, la procedura da seguire è quella prevista dallo Statuto dei lavoratori per il corretto esercizio del potere disciplinare (art. 7 legge 300 del 1970). Al datore di lavoro sono posti vari obblighi, tra i quali assumono rilevanza centrale:

  • la predisposizione di un codice disciplinare che individui le infrazioni e le relative sanzioni (di norma si tratta di un estratto del contratto collettivo di settore). Non è necessario elencare i comportamenti comunemente avvertiti come antisociali e/o previsti dalla legge come reato, in quanto il dipendente non può non sapere che un comportamento considerato illecito dalla legge può essere sanzionato anche in azienda.
  • la pubblicazione del codice disciplinare, da effettuarsi esclusivamente mediante affissione dello stesso in luogo accessibile a tutti i dipendenti
  • la contestazione per iscritto dell’addebito. La contestazione deve rispettare alcuni principi:
    • Immediatezza: l’addebito va contestato prima possibile, e in ogni caso entro il termine stabilito dal contratto collettivo. Per la Cassazione, l’immediatezza è presupposto di legittimità del provvedimento.
    • Specificità: i fatti vanno individuati in modo preciso, per consentire una difesa puntuale.
    • Immutabilità: il fatto risultante dalla contestazione non può essere successivamente modificato.

Contestato l’addebito, il datore deve consentire l’esercizio del diritto di difesa da parte del prestatore, che deve essere sentito qualora ne faccia richiesta. Il licenziamento disciplinare non può essere intimato prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione.

Impugnazione del licenziamento

Il licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o intimato senza rispetto della prescritta procedura, o contrario a norme imperative (es. perché discriminatorio, o comminato nei periodi in cui non è possibile recedere per tutela della lavoratrice madre) può essere impugnato.

L’impugnazione è di norma proposta dal lavoratore personalmente, ovvero dal sindacato cui questi è iscritto o da un legale munito di procura speciale. Per impugnare il licenziamento è sufficiente qualsiasi atto scritto (di norma una lettera) con cui il lavoratore comunichi al datore di lavoro la sua intenzione di contestare la legittimità del provvedimento espulsivo.

Tale impugnazione deve avvenire entro il termine di sessanta giorni dalla data del licenziamento ovvero dalla successiva data di comunicazione dei motivi, qualora richiesti (art. 6 l. 604/66). Il termine ha natura decadenziale: se il licenziamento non è impugnato, si decade dalla possibilità di richiedere al Giudice del lavoro l’accertamento della illegittimità del provvedimento datoriale e la conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno.

Impugnato per tempo il licenziamento, il lavoratore ha cinque anni di tempo (termine prescrizionale) per iniziare la causa contro il datore di lavoro, cioè per impugnare giudizialmente il licenziamento, con ricorso al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro. Sotto il profilo procedurale, trovano applicazione le norme sul processo del lavoro, compresa la necessità di dar corso al tentativo obbligatorio di conciliazione in sede sindacale o amministrativa.

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Tutela contro i licenziamenti invalidi

L’ordinamento italiano prevede, nel caso di licenziamenti giudizialmente accertati come illegittimi, diverse discipline di tutela, distinte in ragione delle dimensioni dell’azienda e del tipo di vizio (inefficacia per vizi di forma, nullità per motivo illecito o discriminatorio) da cui affetto l’atto datoriale.

La differenza principale in punto di conseguenze giuridiche del licenziamento illegittimo è quella tra la c.d. tutela reale (disciplina più rigida, applicabile alle imprese con più di 15 dipendenti) e la c.d. tutela obbligatoria (applicabile alle imprese che occupano sino a 15 dipendenti).

 

Dimissioni e licenziamento

Le dimissioni, a differenza del licenziamento, comportano la corresponsione entro mesi delle sole spettanze (ferie e PAr non goduti e il TFR). Dimettendosi il lavoratore, perde il diritto alla tutela reale e obbligatoria.

Talora, le dimissioni volontarie sono incentivate dal datore di lavoro, che propone un’indennità, subordinata alla firma di un verbale di accordo con il quale le parti rinunciano a ogni altra successiva rivendicazione.

 

Aziende con una maggiore soglia occupazionale: la “tutela reale”

 

Area di applicabilità

La tutela più rigida, prevista dall’art. 18 St.lav., si applica ai datori di lavoro (imprenditori o non imprenditori) che presentino le seguenti soglie occupazionali:

  • datori che occupino, nell’unità produttiva ove si è verificato il licenziamento, più di 15 dipendenti
  • datori che occupino, anche in più unita produttive ma nell’ambito dello stesso comune ove è sita l’unità produttiva in cui si è verificato il licenziamento, più di 15 dipendenti
  • datori che occupino complessivamente più di 60 dipendenti

Il computo dei dipendenti va fatto considerando i lavoratori stabilmente occupati in azienda al momento dell’intimazione del licenziamento. Tra i lavoratori da considerare rientrano:

  • quelli assunti con contratto a tempo indeterminato
  • quelli assunti con contratto a tempo parziale (part time), ma in proporzione all’orario svolto rapportato al tempo pieno (2 lavoratori part time al 50% si contano come una unità)

Restano esclusi dal computo, per previsione di legge:

  • gli apprendisti (art. 53, d.lgs. 276/2003)
  • i dipendenti assunti con contratto di inserimento (art. 59, d.lgs. 276/2003)
  • il coniuge del datore di lavoro, nonché i suoi parenti entro il secondo grado (art. 18, l. 300 del 1970)

La giurisprudenza ha inoltre escluso:

  • i lavoratori assunti a tempo determinato per sopperire ad esigenze eccezionali e momentanee dell’azienda
  • il socio consigliere di amministrazione, anche qualora prestasse stabilmente la propria attività nell’azienda.

Fino al 1999, una giurisprudenza consolidata affermava che grava sul datore di lavoro l’onere di provare l’inesistenza del requisito occupazionale e perciò l’impedimento all’applicazione dell’art. 18 St. Lav. (Cass., 17.05.2002, n. 7227).

Il primo orientamento della Suprema Corte in direzione opposta è la Sentenza della Sezione Lavoro n° 613 del 22 gennaio 1999, che pone l’onere probatorio a carico del datore di lavoro.

La Suprema Corte è poi tornata ad affermare che l’onere della prova grava sul lavoratore (sentenza n. 12492 del 10 novembre 1999,Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri), contestando la precedente citata sentenza. Secondo questa sentenza, sarebbe invece il lavoratore ricorrente a dover dar prova delle soglie occupazionali. Il criterio della “facilità della prova” deve sostituirsi con il principio che “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” (art. 2196 del codice civile). Mentre la facilità della prova è una tesi innovativa introdotta da una sentenza, la realtà fattuale oggetto dell’accertamento è una prassi giudiziale in genere, e propria del campo giuslavoristico.

A fronte di due sentenze divergenti, segue un pronunciamento a Sezioni Unite della Cassazione, che è in genere un riferimento definitivo, sostitutivo delle precedenti interpretazioni, che risolve il contrasto di giurisprudenza.

In via definitiva, l’orientamento dell’onere probatorio gravante sul datore di lavoro, è ribadito da una successiva sentenza a Sezioni Unite, la n. 141/2006, in cui si afferma che fatti costitutivi per l’impugnazione del licenziamento sono l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre il giustificato motivo oggettivo e le dimensioni dell’impresa sono fatti impeditivi al diritto soggettivo del lavoratore a riprendere la propria attività, e devono essere provati dal datore di lavoro. Con quest’onere il datore dimostra (art. 2118 del codice civile) che il diritto alla reintegro nel posto di lavoro non sussiste, e di essere tenuto al risarcimento pecuniario.

Il tema dell’onere probatorio riguardo alla dimensione d’impresa, assume rilevanza dopo l’impugnazione del licenziamento e in sede processuale, mentre nelle fasi precedenti (la trattativa personale e la Camera di Conciliazione) non esistono autorità preposte ovvero obblighi informativi a beneficio del dipendente, quali la produzione, su richiesta scritta, di un dato aggregato e certificato presso il datore di lavoro o le banche dati che questi deve alimentare con i contratti di assunzione. La produzione di totali ripartiti per tipologia contrattuale alla data del licenziamento non lede il diritto alla privacy e riservatezza dei contratti di assunzione e relative retribuzioni.

In sede giudiziale, il lavoratore potrebbe quindi limitarsi a sostenere l’applicabilità della tutela reale.

 

Regime sanzionatorio

In caso di licenziamento illegittimo comminato da un’azienda con più di 15 dipendenti, la sentenza del giudice del lavoro comprende

  1. un ordine al datore di lavoro di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro
  2. la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno arrecato, pari alla retribuzione globale di fatto che il lavoratore avrebbe avuto diritto a percepire dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione in azienda; in ogni caso la somma dovuta a titolo di risarcimento del danno non può essere inferiore ad un importo pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.
  3. la condanna del datore a versare i contributi assistenziali e previdenziali dovuti per il periodo compreso tra il licenziamento e il provvedimento di reintegra (in quanto né il rapporto di lavoro, né quello assicurativo – INAIL e previdenziale – INPS si possono considerare interrotti)

Se il lavoratore non vuole ritornare in azienda, può scegliere di rinunciare alla reintegrazione e richiedere il pagamento di una indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità della sua retribuzione globale di fatto. La scelta va comunicata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza. Qualora il lavoratore, invitato a riprendere il lavoro a seguito di ordine di reintegrazione, non si presenti in azienda entro 30 giorni, ovvero non comunichi la sua volontà di optare per l’indennità sostitutiva, il rapporto di lavoro si intende definitivamente risolto (art. 18, comma 5, l. 300/1970).

 

Indennità di mancato preavviso

I Contratti Collettivi Nazionali definiscono, per ogni livello di inquadramento, un periodo di preavviso che datore e dipendente devono osservare prima di recedere unilateralmente dal contratto.

Il periodo da osservare è indicato nel contratto e può essere aumentato dalla trattativa individuale in sede di assunzione. se non specificato nel contratto, il riferimento è il CCNL di categoria.

Il dipendente che presenta le dimissioni o il datore che licenzia devono dare alla controparte un preavviso durante il quale resta in vigore il rapporto di lavoro. Le dimissioni e il licenziamento sono effettivi, e il rapporto di lavoro estinto, al termine di questo periodo.

Il preavviso serve al lavoratore ad avere un tempo idoneo a trovarsi un’altra occupazione, e al datore ad assumere un’altra persona con un eventuale periodo di affiancamento e travaso di conoscenza.

Diversamente, il dipendente dimissionario o il datore licenziante devono corrispondere alla controparte un’indennità di mancato preavviso, pari alle mensilità previste (es.: preavviso di un mese, una mensilità da pagare).

L’indennità decade per dimissioni o licenziamento per giusta causa, anche sopraggiunte durante il periodo di preavviso, o per verbale di accordo fra le parti (vale, come detto, per recesso unilaterale, non bilaterale delle parti contraenti).

L’indennità di mancato preavviso è distinta e cumulabile con le mensilità corrisposte in base alla tutela reale e obbligatoria.

L’art. 2118 del codice civile prevede un periodo di preavviso per l’esercizio del diritto di recesso da parte di una delle parti contraenti. La norma si applica a contratti di qualunque tipo, non solamente a contratti di lavoro. La durata del preavviso è disciplinata dalla contrattazione collettiva, e, in assenza di una specifica contrattuale a riguardo, dai termini di preavviso di cui all’art. 10, R.D.L. n. 1825/1924 (legge sull’impiego privato).

 

Aziende con una minore soglia occupazionale: la “tutela obbligatoria”

Quando il licenziamento illegittimo è intimato da aziende di dimensioni più ridotte (sino a 15 dipendenti), la sentenza stabilisce un obbligo alternativo in capo al datore di lavoro (art. 8 legge n. 604/66), il quale può scegliere tra

  • riassumere il lavoratore entro tre giorni dalla pubblicazione della sentenza
  • ovvero pagare all’ex dipendente una indennità risarcitoria, compresa tra 2,5 e 6 mensilità (estensibile sino a 10 per i lavoratori con almeno dieci anni di anzianità, e fino a 14 per i dipendenti in servizio da più di venti anni). La misura dell’indennità è stabilita dal giudice sulla base dell’anzianità di servizio, delle dimensioni aziendali, nonché al comportamento tenuto dalle parti.

A differenza di quanto stabilito per le aziende maggiori, nell’area della tutela obbligatoria il licenziamento – seppur illegittimo – determina la cessazione del rapporto. L’obbligo imposto al datore di lavoro soccombente nel giudizio è quindi diverso da quello previsto in regime di tutela reale: non si tratta infatti di reintegrazione nel rapporto di lavoro, ma di riassunzione. Il lavoratore è quindi assunto nuovamente sulla base di un nuovo contratto, con conseguente azzeramento della pregressa anzianità di servizio. Per il periodo intercorrente tra licenziamento e riassunzione il datore di lavoro non è tenuto a pagare né la retribuzione, né i contributi assistenziali e previdenziali.

Qualora il datore non provveda alla riassunzione nel termine di legge, egli è tenuto a pagare l’indennità prevista, oltre all’indennità di mancato preavviso (che recente giurisprudenza [7] ha ritenuto compatibile con il sistema sanzionatorio della tutela obbligatoria).

La differenza sostanziale fra tutela reale e tutela obbligatoria, ossia fra reintegra e riassunzione, è che dove vige la tutela obbligatoria, nelle aziende con meno di 15 dipendenti, il datore può rifiutarsi di riammettere il dipendente nel posto di lavoro, e pagare un’indennità. Sopra i 15 dipendenti, la decisione spetta al lavoratore, ma a seguito della sua richiesta, il datore ha l’obbligo di riassumerlo.

Se il datore impedisce materialmente l’accesso alla sede di lavoro, ovvero sottrae al lavoratore mezzi e attrezzature (quali computer, telefono aziendale, etc.) necessarie a esperire la sua attività, il lavoratore può avvalersi della forza pubblica per i verbali e contestazioni del caso, e adire nuovamente il giudice del lavoro.

La tutela obbligatoria si distingue quindi da quella reale sotto due profili principali:

  1. nella tutela obbligatoria la scelta tra riassunzione e pagamento dell’indennità spetta al datore di lavoro; nella tutela reale è il lavoratore ad avere la libertà di scelta;
  2. la misura del risarcimento è significativamente minore nell’area della tutela obbligatoria.

 

Licenziamenti discriminatori e altri casi di nullità

In talune ipotesi espressamente previste dalla legge, il licenziamento è considerato radicalmente nullo. Le ipotesi principali previste dall’ordinamento italiano sono le seguenti:

  • licenziamento intimato alla lavoratrice madre, nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il compimento del primo anno di vita del bambino (art. 54 d.lgs. 151 del 2001)
  • licenziamento intimato al lavoratore padre, in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo e fino al compimento del primo anno di vita del bambino
  • licenziamento intimato per appartenenza ad un sindacato o partecipazione ad uno sciopero, ovvero per motivi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di sesso, di lingua, di nazionalità, di età, ovvero legati ad un handicap, all’orientamento sessuale, alle convinzioni personali (art. 15 l. 300 del 1970; art. 3 l. 108/90; art. 4 l. 604/66).
  • licenziamento intimato per rappresaglia o altro motivo illecito (art. 1345 c.c.)
  • licenziamento intimato alla lavoratrice a causa di matrimonio (l. 7 del 1963),
  • licenziamento “simulato” con le dimissioni coartate (nullo ai sensi della legge n. 188/2007).

L’onere della prova spetta al lavoratore che sostenga la nullità del licenziamento.

In conseguenza della nullità giudizialmente accertata, il datore è tenuto a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli tutti i danni subiti. Questo particolare regime, assimilabile a quello della tutela reale previsto dall’art. 18 St.lav., si applica indipendentemente dalle soglie occupazionali (quindi anche nell’area della tutela obbligatoria), e persino nell’area di libera recedibilità (lavoratori domestici, ecc.) e ai dirigenti.

 

Risarcimento dei danni ulteriori

Sia in regime di tutela obbligatoria che in regime di tutela reale, il lavoratore può richiedere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del licenziamento ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 18 St.lav.

In determinati casi, il licenziamento può comportare infatti un pregiudizio alla professionalità o all’immagine del lavoratore, del quale può essere chiesto giudizialmente il risarcimento. La prova del danno subito grava sul lavoratore.

 

Licenziamento dei dirigenti

Il licenziamento del dirigente non segue le norme previste per le altre categorie di lavoratori dipendenti, ed è quindi regolato dalle norme del codice civile e dalla contrattazione collettiva.

 

Motivazione

I contratti collettivi applicabili ai dirigenti hanno introdotto la nozione di giustificatezza del licenziamento, nozione che non coincide con quella di giustificato motivo prevista dalla l. 604/66.

Sotto il profilo civilistico, si considera ingiustificato un licenziamento

  • intimato in violazione delle regole generali di correttezza e buona fede
  • discriminatorio o comunque fondato su un motivo illecito (licenziamento nullo).

Ove vengano dedotte esigenze di riassetto organizzativo finalizzato ad una più economica gestione dell’azienda – la cui scelta imprenditoriale è insindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità – il licenziamento del dirigente non è ingiustificato, tale potendo considerarsi solo quello sorretto da un motivo che si dimostri pretestuoso e non corrispondente alla realtà, ovvero tale che la sua ragione debba essere rinvenuta unicamente nell’intento del datore di lavoro di liberarsi della persona del dirigente e non in quello di perseguire il legittimo esercizio del potere riservato all’imprenditore di riorganizzare le risorse umane in modo da consentire una gestione non in perdita dell’azienda.

 

Forma

La contrattazione collettiva prevede l’obbligo della forma scritta e della contestuale motivazione del licenziamento del dirigente.

Secondo un orientamento giurisprudenziale, in caso di licenziamento disciplinare il datore è tenuto ad applicare le garanzie procedurali previste dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, quantomeno nel caso in cui la sanzione debba comminarsi a dirigenti non “di vertice” .

 

Conseguenze del licenziamento ingiustificato

Nel settore privato, la reintegrazione nel posto di lavoro è ovviamente esclusa, salvo il caso del licenziamento discriminatorio previsto dall’art. 3 l. 108/90.

Al dirigente ingiustificatamente licenziato spetta quindi, di regola, esclusivamente una indennità supplementare, nella misura prevista dai contratti collettivi applicabili (di norma: da un minimo pari all’indennità di mancato preavviso ad un massimo di 18/22 mensilità), che il datore è tenuto a corrispondere a titolo di risarcimento del danno.

La reintegrazione nel posto di lavoro del dirigente illegittimamente licenziato è invece prevista nel settore del pubblico impiego, in forza del richiamo operato dall’art. 51 comma 2 d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, che estende a tale categoria tutte le norme applicabili ai dipendenti privati con qualifica impiegatizia (v. Cass. 01 febbraio 2007, n. 2233).

 

Ammortizzatori sociali

Il lavoratore licenziato può chiedere all’INPS la corresponsione della indennità di disoccupazione.

I requisiti per ottenere l’indennità sono i seguenti:

  1. effettivo stato di disoccupazione involontaria (l’indennità non è corrisposta in caso di dimissioni volontarie, tranne che queste siano presentate per giusta causa)
  2. possesso di almeno due anni di anzianità assicurativa INPS (si calcolano anche i periodi di contribuzione figurativa, come i periodi di astensione per maternità)
  3. almeno 52 settimane di contribuzione nel biennio precedente all’inizio dello stato di disoccupazione
  4. conservazione di una residua capacità lavorativa
  5. presentazione della domanda per iscritto all’INPS

La domanda va presentata entro 60 giorni dall’inizio della disoccupazione indennizzabile (quindi, considerato il periodo di carenza di otto giorni, entro il sessantottesimo giorno successivo al licenziamento). La presentazione tardiva comporta che l’indennità sarà corrisposta dall’INPS solo a partire dal quinto giorno successivo alla presentazione della domanda.

A partire dal 1° gennaio 2008 la durata dell’indennità di disoccupazione (originariamente di 6 mesi) passa a 8 mesi , che diventano 12 per coloro che hanno superato i cinquanta anni di età. Ai lavoratori sospesi spetta nel limite massimo di 65 giorni.

L’ammontare dell’indennità di disoccupazione a partire dal 1° gennaio 2008, è pari al 60% della retribuzione lorda mensile per i primi 6 mesi, al 50% per il settimo e l’ottavo mese e al 40% per i mesi successivi. Ai lavoratori sospesi è pagata nella misura del 50% della retribuzione.

L’importo massimo dell’indennità è di € 858,58 elevato a € 1.031,93 per i lavoratori che hanno una retribuzione mensile lorda superiore a € 1.857,48.

A certe condizioni è possibile accedere all’indennità anche con requisiti ridotti rispetto a quelli sopra esposti.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dà inoltre diritto all’iscrizione nelle liste di mobilità, che prevedono forti sgravi nei contributi INPS per le imprese che assumono lavoratori licenziati. L’iscrizione nelle liste di mobilità può quindi aumentare, soprattutto per alcune categorie di lavoratori e in alcune parti del Paese, la possibilità di essere riassunti presso altra azienda.

Fonte: Wikipedia




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